Negli anni 70′ ho vissuto da vicino la trasformazione di un’azienda artigiana che aspirava a diventare semi-industriale.
Ecco i fatti accaduti e le considerazioni che possiamo trarne.
Metà anni Settanta. L’Italia industriale vive un periodo di cambiamento e sviluppo, molte piccole imprese crescono, spesso guidate da imprenditori artigiani, animati da entusiasmo e creatività ma privi di solidi strumenti manageriali.
In questo contesto si sviluppa l’esperienza da me vissuta presso l’impresa che per riservatezza chiamerò ALFA e, successivamente, nel suo passaggio ad una nuova realtà, BETA.
Molto giovane, con diverse esperienze nelle attività organizzative di vendita, da un incontro quasi casuale, mi venne offerta l’opportunità di ricoprire in ALFA un ruolo di supporto tecnico-commerciale. Particolarmente intrigante per me il settore ed il tipo di produzione: elettronica di bordo per il diporto nautico.
Già dal primo colloquio rimasi affascinato dalla capacità del titolare di unire inventiva e pragmatismo tecnico ed una visione del prodotto tecnologico caratterizzato da un avanzato design.
Entrato in azienda trovai un ambiente in pieno fermento che esprimeva grandi potenzialità ed altrettante fragilità.
ALFA e la filosofia del fondatore
Un laboratorio artigianale capace di produrre apparati tecnologici d’avanguardia per l’epoca nati da brillanti intuizioni del titolare, basate su un concetto di totale autonomia produttiva.
Una visione dell’impresa come estensione della propria identità: tutte le fasi di lavorazione si svolgevano rigorosamente all’interno, ogni dettaglio portava la sua impronta personale.
La filosofia era chiara: fare bene, fare con passione, senza compromessi ma, sicuramente, poco aperta alla delega ed alle logiche di scala produttiva.
Avremmo potuto … iniziare a strutturare meglio i processi, ma la convinzione che “la qualità si controlla con gli occhi e con le mani” prevalse su ogni altra ipotesi di organizzazione.
Prime esperienze e segnali di crisi
Il primo anno tutto sembrava funzionare al meglio: ordini in crescita, positività, clienti interessati.
Relativamente facile acquisire nuovi clienti, l’innovativa gamma ed il design catturavano l’interesse dei cantieri e molti, tra i migliori, inserirono il sistema come primo equipaggiamento.
Tuttavia, sotto la superficie, si avvertiva la mancanza di una sana organizzazione.
Costi non monitorati con precisione, fondi insufficienti per finanziare la crescita, conseguenza: la pianificazione delle scorte di magazzino e la produzione non erano in grado di seguire le richieste del mercato.
In breve tempo arrivarono le prime difficoltà finanziarie, ritardi nei pagamenti e la fiducia cominciò ad incrinarsi.
La dipendenza dal fondatore era totale: ogni decisione passava da lui, ogni errore diventava personale.
Avremmo potuto … adottare misure di controllo della gestione differenti e più adeguate alle risorse disponibili (ed eravamo in tempo), ma la priorità restò “fare uscire il prodotto” illudendosi di risolvere le problematiche con i proventi delle vendite.
Crisi e tentativo di salvataggio
In autunno, complice l’andamento stagionale del mercato, gli ordini diminuirono e la situazione precipitò. L’accesso al credito bancario si restrinse e buona parte degli addetti abbandonò il lavoro. La produzione si fermò quasi del tutto.
Poi, un’occasione inattesa: un conoscente del titolare presentò tre potenziali investitori interessati a rilevare l’azienda e rilanciarla.
Dopo lunghe ed estenuanti trattative, nacque BETA, nuova società che acquistò marchio e strutture, con l’obiettivo di industrializzare il prodotto ed orientarsi verso l’export.
Nuovo corso e conflitti
I tre nuovi soci avevano competenze solide in gestione e finanza.
La loro prima decisione fu spostare la produzione fuori regione, mantenendo sviluppo e ricerca nella sede originaria. L’obiettivo era razionalizzare i costi e creare una filiera semi-industriale.
Il fondatore, però, vide in questa scelta un tradimento della propria identità e delle maestranze storiche.
Iniziò un braccio di ferro: da un lato la visione manageriale, dall’altro la difesa della cultura artigiana.
Avremmo potuto … costruire un compromesso fondato su gradualità e rispetto reciproco, ma prevalse la diffidenza.
Consulenza esterna e la nuova produzione
Un professionista esterno, uomo di fiducia dei nuovi soci, condusse un’analisi dettagliata: costi, flussi e potenzialità del brand.
La nuova organizzazione prese forma.
Parte della produzione fu affidata a terzisti, in particolare la realizzazione delle parti elettroniche, mentre l’assemblaggio restò nella sede regionale.
I prodotti, rivisti e migliorati, ottennero subito l’interesse del mercato, ma emersero problemi inattesi: ritardi nelle consegne, difetti di funzionamento, resi costosi.
La corsa alla produttività aveva sacrificato il controllo qualità e la coerenza di filiera.
Epilogo
La tensione tra il fondatore ed i nuovi soci raggiunse il punto di rottura. La mancanza di reciproca fiducia divenne insanabile. Il titolare storico decise di uscire dalla società, rinunciando alle proprie quote.
Poco prima, consapevole dell’impossibilità di contribuire in modo costruttivo, presentai anche le mie dimissioni.
Fu un’amara esperienza ma una autentica lezione di management: capire che intuizione e competenza non bastano, se mancano chiarezza di ruoli, cultura organizzativa e visione condivisa.
Riflessioni e parallelismi
Guardando oggi a quei fatti rilevo, purtroppo, che situazioni ed errori simili si ripetono ancora, tra i quali:
– mancanza di una chiara governance nei passaggi societari
– scontro tra modello di impresa
– falle nel controllo qualità
– mancanza di ascolto tra competenze diverse
– totale incapacità di coinvolgimento organizzativo
Avremmo potuto …
– definire da subito ruoli e responsabilità chiari
– pianificare produzione e controllo qualità senza esasperarne i principi inseguendo la velocità
– preservare il patrimonio culturale dell’azienda pur aumentandone il livello professionale
– migliorare grado di ascolto e comunicazione tra chi porta idee diverse
Avremmo potuto fare così … ma non lo abbiamo fatto.
E da quella serie di “ma” sono maturate le consapevolezze che ancora oggi mi accompagnano quando affronto casi analoghi.